Quante volte si ritiene, semplicisticamente, che un perdurante demansionamento possa rappresentare “mobbing” o, perlomeno la sua forma più affievolita, lo “straining”, ma nella maggior parte dei casi non è così, anche se al lavoratore demansionato può spettare comunque un adeguato risarcimento.
La definizione di mobbing elaborata dal diritto vivente e dalla giurisprudenza si può sintetizzare come una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico sistematica e protratta nel tempo tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Pertanto, per potersi parlare di mobbing, devono sussistere questi quattro elementi fondamentali:
Caratteristica propria del mobbing è infatti l’intento persecutorio, cioè la coscienza e volontà del datore di lavoro di arrecare danni di vario tipo ed entità al dipendente medesimo che, secondo la giurisprudenza deve essere provato in giudizio integralmente dal lavoratore così al pari di tutti gli altri requisiti.
Una prova particolarmente difficile da dare, purtuttavia – se anche non si dovesse riuscire a dimostrare l’intento persecutorio idoneo a unificare tutti gli episodi – ciò non significa un’assenza di tutela.
Infatti, qualora venisse ravvisato nei singoli comportamenti un contenuto oggettivamente vessatorio e mortificante per il lavoratore si sarebbe di fronte alla categoria delle “altre condotte vessatorie” per cui il singolo provvedimento datoriale oggettivamente illegittimo potrà portare ad una responsabilità risarcitoria del datore di lavoro nei limiti dei danni imputabili, senza esservi mobbing.
Questa fattispecie si può definire come da una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante è caratterizzata da una durata costante.
Pertanto mentre il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo.
Si tratta cioè di una forma attenuata di mobbing e, rispetto a questi, difetta unicamente dell’elemento oggettivo della frequenza delle azioni vessatorie per cui siamo in presenza di straining in presenza dei seguenti requisiti:
Anche per il caso di straining spetterà al lavoratore la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, ivi compreso l’intento vessatorio nella condotta.
Pertanto anche nel caso di un demansionamento, tipico esempio di condotta con effetti permanenti o comunque durevoli nel tempo, si può parlare di straining sempre che vi sia data prova dell’intento vessatorio da parte del datore di lavoro e che tale condotta abbia provocato danni psicofisici e alla dignità del lavoratore.
Come sopra esposto, tuttavia, in una causa per demansionamento non sempre è possibile dimostrare l’intento vessatorio del datore di lavoro, cioè l’intenzionalità e la coscienza del datore di lavoro di arrecare danni al lavoratore nel porre in essere la condotta “mortificante”.
Ma, pur non riuscendo a provare l’intenzionalità, non si può non ritenere che un grave demansionamento possa essere in sé e per sé mortificante e cioè abbia sotto il profilo oggettivo un elemento di vessatorietà e offensività tale da provocare danni all’integrità psicofisica del lavoratore e lesivo della sua dignità.
In tali casi, e cioè di fronte a un demansionamento illegittimo e mortificante, si potrà ottenere un risarcimento dei danni non patrimoniali e patrimoniali subiti per tale condotta, pur non potendosi configurare mobbing o straining.
La prova del danno da demansionamento e dequalificazione professionale dovrà comunque sempre essere offerta dal lavoratore, ma potrà anche sufficiente allegare una serie di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti.
La giurisprudenza sul punto è costante nel precisare che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale per cui il lavoratore dovrà descrivere le lesioni, patrimoniali e non patrimoniali prodotte dalla condotta, quindi dovrà provarsi l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio e, ovviamente, il nesso causale con la condotta illegittima del datore di lavoro.
Si potrà avere un danno non patrimoniale sotto il profilo di danno biologico e cioè una lesione permanente o temporanea all’integrità psicofisica del lavoratore che dovrà essere accertato mediante idonee relazioni medico legali.
Purtuttavia anche in assenza di accertamento di un vero e proprio danno biologico, il demansionamento potrà causare un danno morale e da perdita della professionalità.
Si dovrà adeguatamente tener conto dell’aspetto interiore del danno sofferto, il danno morale consistente nel dolore, nella vergogna, nella disistima di sé, nella paura e nella disperazione e del danno nell’aspetto dinamico-relazionale destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne della vittima.
Nei casi di grave demansionamento si assiste necessariamente ad una lesione dell’immagine della vittima nell’ambiente di lavoro e della stessa percezione che il lavoratore ha di sé.
Dall’altra, sovente, si ha anche un danno patrimoniale di lesione della professionalità in quanto il lavoratore avrà una riduzione progressiva dell’insieme delle sue conoscenze teoriche e delle capacità tecnico professionali con un conseguente scadimento del livello professionale del lavoratore demansionato, con inevitabile perdita anche del valore complessivo del lavoratore nel mercato del lavoro.
Per un ulteriore approfondimento si rimanda alla lettura di una recente pronuncia del Tribunale di Bergamo, 24 febbraio 2022 che ha affrontato puntualmente il tema trattato nel presente articolo.